Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Quelle risposte riformiste che il Pd non ha dato

Dal  2008 a oggi è successo questo: il Pd è passato da 12 milioni di voti (33,17%, dato Camera) a poco più di 8 milioni e mezzo (25,41%). 

Quanto alla “sinistra-sinistra”, la somma di Sel (1.090.000, 3,2%) e Rivoluzione Civile (765.000, 2,24%) fa circa 1.850.000 voti, contro i 2.700.000 voti raccolti nel 2008 da Idv (1.590.000, 4,37%) e Sinistra arcobaleno (1.120.000, 3,08%). 

La débacle elettorale delle forze cosiddette progressiste è racchiusa in questi dati, che a loro volta ne fotografano un altro non numerico ma ancora più eloquente: nel mezzo di una crisi economica drammatica che colpisce larghe fette del corpo sociale, compresa buona parte dei ceti medi, la sinistra che da sempre e dappertutto ambisce a rappresentare le persone e i gruppi sociali in difficoltà , arretra. Arretra vistosamente, al punto da oscurare la frana indiscutibile dello schieramento di centrodestra precipitato in cinque anni da 17 milioni di voti a meno di 10 milioni. Arretra cedendo praterie elettorali a un fenomeno inedito e politicamente inafferrabile come sono i “cinquestelle”. Detto con parole semplici: la destra ha quasi dimezzato i suoi consensi, malgrado questo il Pd non ha vinto certificando il suo, temiamo definitivo, fallimento. 

Da qui, noi crediamo, si deve partire per capire il terremoto di queste elezioni. Per capire, innanzitutto, che il centrosinistra ha perso perché incapace, per il profilo anagrafico ma soprattutto culturale della sua classe dirigente, di vedere che la crisi sociale di questi anni si presenta in forme del tutto nuove, forme incomprensibili se l’analisi resta ferma al “gramelot” laburista dei “giovani turchi” o di Susanna Camusso. Oggi nella miscela esplosiva di sofferenza, preoccupazione e protesta che agita l’Italia si trovano impastati – nelle stesse persone, negli stessi ragionamenti – bisogni e richieste tra loro assai diversi: certo il disagio per il lavoro che si perde o per il lavoro che non c’è e l’insofferenza per una pressione fiscale esorbitante, ma insieme un disgusto radicale (spesso più che giustificato) verso chi fa il mestiere della politica e poi domande persino sorprendenti. Come quelle che hanno portato un anno e mezzo fa, a crisi già  conclamata, 30 milioni di italiani a votare nei referendum su nucleare e acqua pubblica mostrando di assegnare grandissima importanza a temi – l’ambiente, i beni comuni – che per lo stato maggiore del Pd sono astrusi e/o irrilevanti. 

Il Partito democratico non sembra in grado di leggere queste novità , tanto meno di nutrirne linguaggi e proposte. Non ha saputo mettere al centro del suo discorso pubblico quelle grandi questioni – l’ecologia, l’educazione, l’innovazione, lo stesso tema fiscale – che sole possono dare prospettiva e attrattiva a un programma riformista, e così ha finito per ridurre la sua promessa di cambiamento a due messaggi non proprio entusiasmanti: una stanca, verbosa perorazione sul lavoro e l’appello all’austerità  (dei conti, dei comportamenti, magari anche delle speranze…). 

Nemmeno ha saputo, il Pd, offrire risposte convincenti alla domanda ormai endemica di “ecologia della politica” e sciogliere davvero i nodi della sua questione morale: che non si esaurisce in qualche impresentabile tardivamente escluso dalle liste ma è fatta di un rapporto troppo spesso opaco con gli interessi economici. 

Ancora, la sconfitta del Pd ha un’altra radice profondissima: è l’ossessione identitaria comune in particolare a tutti gli ex-comunisti, l’idea cioè di una sinistra cui si appartiene per una scelta di vita, quasi antropologica. Idea che riguarda una minoranza sempre più ristretta di italiani, quelli che ad ogni elezione non si chiedono per chi votare dato che lo sanno già , per principio. 

E idea ormai del tutto priva di senso politico: perché il contenuto di questa identità  di cui ci si sente depositari non è più in una certa visione del mondo, in una “ideologia”, morte e sepolte; no, è in un’appartenenza apodittica, nella presunzione di essere diversi e migliori rispetto a tutti gli altri italiani. 

Su tutti e tre questi terreni – contenuti della proposta di cambiamento, ecologia della politica, rifiuto del vincolo identitario – i “cinquestelle” si sono mostrati, paradossalmente e almeno nel linguaggio e nella comunicazione, più riformisti del Pd: declinando con parole contemporanee – l’ambiente, l’agenda digitale – i temi delle risposte alla crisi, dando assoluta centralità  alla riforma della politica, rifiutando ogni steccato identitario fino ad ignorare la stessa divisione destra/sinistra. Il movimento di Grillo sarà  pure populista e rozzo, ma certamente è apparso meglio attrezzato per offrire risposte chiare, decise, concrete alla crisi italiana. 

Questo nostro – anticipiamo prevedibili obiezioni – non è “senno di poi”. Cose analoghe le ripetono in molti da molti mesi e cose analoghe le abbiamo scritte anche noi, più volte, su questo giornale. Per esempio scrivemmo dopo le elezioni regionali siciliane che l’onda a cinque stelle stava diventando uno tsunami, e che per arginarla bisognava che il Pd prendesse con forza in mano temi squisitamente “grillini”, e temi sacrosanti, come l’ambiente e l’ecologia della politica. Sappiamo che non si è voluto fare, questi sono i risultati. 

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

Agricoltura, meno aiuti dall’Europa. Ma occhio alla qualità 

Il dibattito che si è acceso sugli esiti dell’ultimo vertice europeo sul bilancio della Comunità  offre l’occasione per una riflessione che vada oltre quella più ovvia sulla “quantità ” e che approfondisca il tema della “qualità ” della spesa pubblica anche a livello europeo. Intendiamoci, è sacrosanto criticare la contrazione del bilancio voluta e ottenuta dalla destra (e dai paesi del nord) che ridurrà  la possibilità  di intervento su assi invece fondamentali per lo sviluppo, quali la ricerca, l’innovazione, la formazione, il riequilibrio delle disuguaglianze. Ma così come macroscopicamente evidente nel nostro Paese, per sprechi e diseconomie, anche a Bruxelles intervenendo sui singoli capitoli di bilancio e razionalizzando le spese si potrebbero ottenere ampi miglioramenti nella qualità  dell’intervento pubblico.

L’esempio più evidente è chiaramente quello della politica agricola che assorbe da sempre circa il 50% dell’intero bilancio comunitario e per la quale si sta discutendo la riforma per il periodo 2014-2020 proprio in queste settimane. In un recente intervento su Repubblica, Carlo Petrini denunciava il pericolo che “la speranza di un’agricoltura europea più attenta all’ambiente e quindi giusta, tanto per chi paga le tasse quanto per chi produce in maniera sostenibile,” avesse subito una  grave frenata per il voto della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo che, a suo parere, minacciava di depotenziare le seppur timide prospettiva di riforma contenute nella proposta originaria della Commissione Europea. E’ difficile dar torto a Petrini quando segnala le storture della vecchia PAC che hanno sostenuto “un sistema produttivo per cui alla fina si paga due volte. Con le sovvenzioni, ma anche poi per aggiustare i suoi danni, dalla salute alla sicurezza dei territori, dalla qualità  di acqua, aria e terreni a quella del cibo”. Si tratterebbe adesso di portare invece a compimento quello che a parole si dice che si vorrebbe fare da anni: valorizzare la funzione “multifunzionale” dell’agricoltura, la sua capacità  di produrre cibo buono, prodotti tipici (specie nel nostro Paese) che sono parte essenziale delle economie e delle stesse identità  dei territori, ma anche quella di “fare paesaggio” e di essere la prima difesa dal dissesto idrogeologico, senza trascurare il suo, potenzialmente grandissimo, ruolo nella lotta contro i cambiamenti climatici. Come fare? Premiando le buone pratiche agricole, a partire ovviamente dal biologico, e uscendo dalla logica per cui la Pac sino adesso ha premiato le aziende più vaste, e non le pratiche sostenibili, le rotazioni delle colture, le funzioni ecologiche dell’agricoltura. Con quali risorse? E qui si può persino accettare il veto a qualsiasi ipotesi di aumento della spesa complessiva se si sceglie una “qualità ” diversa della stessa. In questo caso piuttosto semplice: se si mettesse un tetto alle sovvenzioni per singole aziende si coglierebbero al contempo due obiettivi: eliminazione di quelle storture, di cui gli 8 milioni di euro l’anno alla Regina Elisabetta per le sue farms sono solo l’esempio più noto, e si potrebbero recuperare risorse preziose per il “secondo pilastro” , quello appunto destinato a sostenere il ruolo multifunzionale della nostra agricoltura, quello del futuro. Se si mettesse un tetto a 100mila euro l’anno si recupererebbero a livello europeo circa 6,5 milardi l’anno sui 40 totali delle sovvenzioni, in Italia 800milioni l’anno , circa il 20% del totale che oggi si godono 300 grandi aziende su oltre 1 milione di agricoltori. Ecco una sfida per i nostri parlamentari a Bruxelles che ne discuteranno nella sessione di metà  marzo, e anche per il nostro prossimo Governo se vorrà  avere un profilo di riformismo radicale anche in Europa.

 

Francesco Ferrante

Gli errori del Governo sull’energia

Caro Direttore, 
in un intervento pubblicato ieri su “Europa” il sottosegretario allo sviluppo economico Claudio De Vincenti replica ad un nostro articolo di alcuni giorni fa fortemente critico con le scelte del ministro Passera in materia energetica.
Al di là  dell’evidente diversità  di opinione sul tema generale, ci permettiamo di segnalare alcune oggettive inesattezze contenute nell’intervento del sottosegretario:
– scrive De Vincenti che il governo ha “rafforzato le restrizioni sulle attività  off-shore”  di estrazione di idrocarburi. E’ vero il contrario: con uno dei decreti sviluppo del governo Monti (d.l. 22/6/2012 n. 83 convertito con Legge 7/8/2012 n. 134) è stato previsto, modificando in peggio una norma introdotta dal governo Berlusconi (d.lgs. 29/6/2010 n. 128), che il divieto a perforare entro le 12 miglia dalle aree protette non valga per i progetti  già  sottoposti ad autorizzazione  (si badi: non per quelli già  autorizzati, il che è comprensibile, ma anche per tutti quelli in attesa di Via…). Questa pessima scelta è frutto, peraltro, di un compromesso tra Parlamento e Governo, visto che il Ministero di De Vincenti  aveva inizialmente proposto di portare il limite del divieto a 5 miglia sia per il passato che per il futuro; 
– De Vincenti arriva ala paradosso di rivendicare come un merito del governo il prolungamento di un anno e mezzo della detrazione fiscale del 55% sugli interventi di ristrutturazione edilizia ecoefficiente. Anche questa affermazione è totalmente infondata: sempre nel decreto sviluppo del giugno 2012 era stato previsto l’azzeramento al 31 dicembre 2012 del 55%, e la sua sostituzione con un credito d’imposta generico del 50% che avrebbe assorbito anche il vecchio 36%. Solo per volontà  del Parlamento vi è stata, in sede di conversione del decreto, una parziale marcia indietro, con la proroga del 55% al 30 giugno 2013;
– sulle rinnovabili, De Vincenti nega che le modifiche ai meccanismi di incentivazione introdotte dal governo Monti abbiano penalizzato questo che era uno dei comparti industriali più promettenti del Paese. Ora, premesso che la nostra critica non è sul livello quantitativo degli attuali incentivi (su cui non abbiamo mai eccepito) ma sulla farragginosità  e sostanziale insensatezza delle procedure, per valutare l’utilità  di tale sedicente “riforma” basta leggere i dati diffusi in questi giorni dal Gse che dimostrano il fallimento delle aste per quanto riguarda l’eolico – meno richieste delle quote da assegnare – e sull’intasamento dei registri. E basta chiedere come la pensa al riguardo a una qualunque – grande o piccola, italiana o no – delle imprese che operano in Italia nel settore;
– sul gas, infine, non abbiamo né scritto in questa occasione né mai detto che l’obiettivo di fare dell’Italia un “hub” del gas è pretenzioso, e invece abbiamo sottolineato come un fatto positivo i primi, seppure tardivi, passi per liberalizzare il mercato italiano del gas, chiarendo che proprio l’avviato superamento del monopolio domestico ha contribuito a far scendere negli ultimi mesi il prezzo medio dell’elettricità . Dunque, su questo punto la polemica di De Vincenti è totalmente pretestuosa. 
Cordiali saluti
 
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante
 

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