Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Auto non strategica

Un anno fa su questo giornale ebbi l’occasione di scrivere che la vicenda della chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, in quei giorni molto calda, rischiava di essere emblematica anche dell’incapacità  della classe dirigente di questo Paese di avere lo “sguardo lungo” necessario per pensare il futuro. Un rischio che mi pare confermarsi, in tutta la sua drammaticità , adesso di fronte al tentativo di Marchionne di riportare i termini dei rapporti tra azienda, lavoratori e sindacati indietro di 50-60 anni. Un tentativo che pare talmente fuori dalla storia da far temere che in realtà  quello che la dirigenza Fiat stia perseguendo ostinatamente – Termini, Pomigliano, Mirafiori – sia la “scusa”, il pretesto, per delocalizzare, andare definitivamente via dall’Italia e trovare così la “propria” risposta alla globalizzazione: cercare, nel mondo, luoghi dove produrre automobili assicurando meno diritti e salari più bassi ai lavoratori.
Contro questo rischio, tragico innanzitutto per i 20mila lavoratori Fiat, molti nel campo dei riformisti – pezzi di sindacato, dirigenti politici, intellettuali – provano a prendere sul serio Marchionne e accettare quel piano di discussione. Io credo che lì sia l’errore. Dovuto a miopia. La domanda da farsi invece dovrebbe essere se – nella globalizzazione – sia giusto intestardirsi a considerare il settore dell’auto, strategico per l’industria di questo Paese come è stato nel XX secolo o se invece la strada da percorrere sia diversa. E se, addirittura, ciò stia già  avvenendo senza nemmeno che noi ce ne si sia accorti. Alcuni dati: nel Regno Unito, che da anni non ha più una propria industria automobilistica e invece un sistema economico molto più finanziario e meno manifatturiero del nostro, già  quest’anno si sono prodotte il doppio delle auto realizzatenell’Italia dei cassaintegrati della Fiat; in questi ultimi tre anni la misura del 55% (quella che permette lo sconto fiscale per ristrutturazioni con risparmio energetico) ha assicurato 50mila posti di lavoro nell’edilizia (più del doppio dei lavoratori Fiat!); il più grande produttore di elettrodomestici al mondo (un cinese) per penetrare il mercato europeo ha deciso di produrre i suoi frigoriferi in uno stabilimento vicino Padova, applicando quel contratto nazionale che sarebbe così drammaticamente penalizzante secondo Marchionne ei suoi corifei, ma confidando sulla capacità  italiana nel design, strategico in quel settore.
Insomma, abbiamo sotto gli occhi i segnali giusti che indicano dove instradare l’economia del nostro Paese – green economy, innovazione tecnologica, manifattura d’avanguardia ad alto contenuto di know how – e però non siamo in grado di fornire la cornice adatta affinché queste eccellenze siano davvero “guida” di una trasformazione complessiva.
Solo così invece si potrebbe uscire dalla tenaglia crisi-globalizzazione. Certo, intanto c’è da rispondere alla sfida della Fiat, respingere il tentativo di isolamento di una parte importante del sindacato, non accettare la riduzione di diritti. Ma andrebbe fatto con questa consapevolezza di futuro, che forse aiuterebbe anche nella ricerca di una soluzione immediata per la produzione di auto in Italia, altrimenti temo che ci siano già  tutte le condizioni per una sconfitta grave per i lavoratori e per il Paese.
 
FRANCESCO FERRANTE

Vi ricordate Genova?

Domande improprie, anche un po’ “demodé”. Molti commentatori vicini al Pd, tra questi il direttore di Europa, hanno giudicato così i dubbi espressi da chi scrive e da altri esponenti del Partito democratico su alcune “strane” immagini degli scontri avvenuti a Roma il 14 dicembre.Immagini che ci hanno spinto a porre un semplice interrogativo: in piazza a Roma in quell’orrenda giornata c’erano solo manifestanti più o meno arrabbiati o c’erano anche persone venute con l’unica intenzione, o con l’ordine, di allestire e animare la scena di una città  messa a ferro e fuoco da migliaia di giovani violenti?

Sollevare un simile dubbio, è stato obiettato, significa annacquare la condanna di ogni forma violenta di protesta, e significa offendere la dignità , la lealtà  delle forze dell’ordine.

Francamente non capiamo. E’ fuori discussione che il 14 dicembre a Roma una minoranza di manifestanti abbia commesso atti di violenza e di teppismo.

E’ fuori discussione che tali comportamenti siano totalmente inaccettabili. Ed è fuori discussione che le forze dell’ordine impegnate a contrastare questa come tutte le illegalità  meritino la massima solidarietà  e il più pieno sostegno.

Detto questo, restiamo noi stupefatti che osservatori informati e consapevoli considerino irrealistico e anacronistico soltanto il dubbio di un uso non sempre legittimo degli apparati di sicurezza. Non sarebbe per l’Italia  un film inedito, nemmeno limitando lo sguardo agli ultimi anni.

Cos’altro è stato il G8 di Genova nel 2001, se non l’occasione (certificata da sentenze della magistratura) per un uso drammaticamente deviato delle funzioni di pubblica sicurezza?

Oggi come allora era in carica un governo Berlusconi: ci pare più che opportuno fare di tutto per scongiurare ogni coazione a ripetere.

Roberto Della Seta – Francesco Ferrante

Innovativi. O inutili

Oggi si riunisce al teatro Eliseo di Roma l’assemblea di Mo-Dem, Movimento Democratico. Un’occasione, speriamo, non tanto per sottolineare le differenze dentro il Pd, che pure ci sono, quanto per rilanciare una banalissima domanda. E cioè: esiste o no un nesso tra l’evidente difficoltà  del Pd ad accreditarsi come realistica alternativa di governo rispetto ad una destra in crisi verticale di consensi, e il progressivo appannamento dell’ambizione innovativa che ha segnato i primi passi del nostro partito? Noi pensiamo che il nesso esista e sia vistoso.
Il Pd non è nato per fondere i resti della tradizione e dei gruppi dirigenti comunisti con i resti del popolarismo di sinistra: storie grandi e nobili, alle quali molti restano legittimamente affezionati; ma storie che poco hanno da dire sui problemi, i bisogni, le speranze dell’Italia di oggi, e che non dicono nulla, assolutamente nulla, a chi è diventato elettore negli ultimi vent’anni. Siamo nati per altro, per dare al nostro paese ciò che non ha mai avuto: un grande partito popolare e riformista, e un partito con le gambe e la testa in questo secolo.
L’impressione è che di questa necessaria discontinuità  non tutti nel Pd siano consapevoli. E non vorremmo che anche Movimento Democratico, che ha proprio l’obiettivo di recuperare l’ispirazione fondativa da cui siamo partiti – quella per intendersi del Lingotto, che ci portò ad un risultato elettorale decisamente lusinghiero – venga percepito come un’iniziativa tutta interna a logiche politiciste. Magari come la prefigurazione di un Pd che incapace di darsi una forte, radicale identità  riformista, si allea con il mitico terzo polo.
Se il Pd si riduce agli eredi (in sedicesimo) di comunisti e sinistra democristiana, resta davvero poco spazio per affrontare i nodi culturali e programmatici che ci rendono oggi così scarsamente competitivi. Per fare un esempio a noi caro, ma un esempio oggettivamente illuminante, resta pochissimo spazio per ragionare attorno a un’altra semplice domanda: perché mai mentre in Europa il centrosinistra fa dell’ambiente un suo cavallo di battaglia e l’occasione per ritrovare consenso – come dimostra l’ascesa dei partiti ecologisti in Germania e in Francia o la decisa conversione ambientalista del New Labour e degli stessi Liberali inglesi – invece il Pd continua a sottovalutare largamente il tema, lasciando, “tollerando” in qualche caso, che ad occuparsene siano i soliti: Ermete Realacci, gli ecodem, qualche sindaco di buona volontà .
Eppure davanti a noi abbiamo praterie sconfinate: la destra al governo maltratta l’ambiente come maltratta tutti i beni comuni – dalla scuola all’università , dalla ricerca alla cultura alla legalità  – basti dire che in due anni ha ridotto da 500 a 60 milioni i fondi per mettere in sicurezza il territorio dai rischi di frane ed alluvioni. Ma l’ambiente, come la cultura e come la scuola, non è solo un bene comune: è anche sviluppo, è un ingrediente fondamentale di quel “prodotto tipico” italiano, decisivo per il nostro futuro, che Realacci ha battezzato soft economy, l’economia che produce ricchezza valorizzando le risorse immateriali, e dunque ecologiche, della bellezza e della creatività  di cui per fortuna il nostro paese abbonda.
Nel mondo in questi anni di crisi sta decollando una rivoluzione verde, a cominciare dall’energia pulita: una rivoluzione che mentre mette un argine ai cambiamenti climatici, al tempo stesso crea lavoro, fa nascere e crescere imprese innovative. àˆ così in Germania, in Francia, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Brasile, e dovunque sono i riformisti a puntare con più forza su questo processo epocale. Di nuovo, il Pd troverebbe uno spazio illimitato se innalzasse anche lui la bandiera dell’ambiente: glielo lasciano Berlusconi e la sua maggioranza che da una parte propongono un improbabile e costosissimo ritorno al nucleare, una sorta di contro-rivoluzione verde che secondo un recente sondaggio viene bocciata da due italiani su tre, dall’altra riducono gli incentivi alle ristrutturazioni energetiche degli edifici introdotti dal governo Prodi, che in quattro anni hanno fatto aprire 800 mila cantieri.
Però se vogliamo essere noi “quelli dell’ambiente”, se non vogliamo che di questo tema s’impossessino altri, dobbiamo saperla “ascoltare” ed accogliere questa rivoluzione in cammino: saper ascoltare i nostri elettori, decisamente più ecologisti del gruppo dirigente, diventare molto meno timidi nel no al nucleare – un no che non ha nulla di ideologico ed è modernissimo, e che secondo quello stesso sondaggio è condiviso dall’80% di chi ha votato Pd – molto più decisi nel rivendicare politiche pubbliche coraggiose per l’innovazione energetica e l’economia verde.
Lo stesso si può dire di altre grandi questioni italiane, a cominciare dall’esigenza pressante di legalità  e di una svolta nell’etica pubblica delle classi dirigenti.
Lo sottolineava ieri Paolo Gentiloni su Europa: che questo sia un grande, ormai debordante bisogno nazionale, lo dimostrano plasticamente i 10 milioni di italiani che seguono i racconti di Saviano a Vieni via con me. Ma per dare rappresentanza a questa domanda di pulizia, il Pd non può limitarsi a denunciare tutto il marcio del berlusconismo. Come sottolineava giorni fa su la Repubblica in un bellissimo articolo Barbara Spinelli, deve pure fare pulizia in casa propria, smettendo di dare spazio, dalla Sicilia alla Campania, a interessi torbidi e a persone che hanno dimostrato irresponsabilità  pubblica e indifferenza etica.
MoDem, che vuol dire Movimento Democratico ma simboleggia anche la capacità  di connettersi a ciò che accade in un mondo sempre più in rete, questo deve fare: spingere il Pd fuori dalle sue attuali secche minoritarie e conservatrici, connetterlo con i problemi e le necessità  veri e urgenti dell’Italia. Prima connettiamoci, poi sarà  più facile scegliere le alleanze.

LA DIRETTA STREAMING DELL’EVENTO SI PUà’ SEGUIRE SUL SITO WWW.MOVIMENTODEMOCRATICO.ORG

1 15 16 17 18 19 48  Scroll to top