Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Bravo Renzi, una lezione per tutti

Che bella giornata oggi, Matteo Renzi ha lasciato a piedi i fiorentini.

Un’ ottima notizia per tutti, un sano shock per il nostro Paese immobile che passa proprio per la questione della mobilità , uno dei temi che dovrebbe essere in cima all’agenda dei sindaci di tutta la Penisola.

Parte oggi infatti la mega pedonalizzazione del centro di Firenze:nel giorno del santo patrono della città , in Piazza Pitti, via Tornabuoni e Por Santa Maria e la già  pedonalizzata piazza Duomo, niente più motori, per sei ettari complessivi dove tutti andranno a piedi.

E’ nata dunque la più grande area pedonale d’Italia, con l’esclusione per ovvi motivi della città  di Venezia, e una tra le maggiori in Europa.

Affari dei fiorentini si dirà , invece no, perché questa rivoluzione verde per noi non attiene solo a vita di Firenze, ed è anzi un fatto squisitamente politico.

Diciamo di più, idealmente questo è un evento che battezza nel modo migliore i risultati straordinari e inattesi dei recenti referendum, che sebbene in molti l’abbiano già  dimenticato o rimosso, sono stati molto prima e molto di più un referendum contro Berlusconi, la prova vistosa che gli italiani chiedono alla politica di rinnovare la propria agenda, dando molto più spazio e peso alla tutela del bene comune e, nel bene comune, al miglioramento della qualità  ambientale.

La stragrande maggioranza dei cittadini vuole infatti misure radicali per migliorare la propria vita quotidiana e l’ambiente urbano che li circonda e li soffoca, e per farlo occorrono amministratori che non siano ostaggio di gruppetti che difendono privilegi, situazioni di comodo e rendite di posizione.

Il sindaco di Firenze in questo senso si è mostrato chiaro nel mostrarsi alternativo alle scelte e alle politiche della destra, coraggioso nel proporre soluzioni misurate sui bisogni e aspirazioni dei cittadini in carne ed ossa.

Certo, a ricordarlo oggi c’è quasi da non crederci, eppure trent’anni fa a Piazza Navona a Roma, Piazza del Duomo a Milano, Piazza del Plebiscito a Napoli chi si fosse affacciato dalla finestra su una di queste piazze meravigliose, avrebbe ammirato un caos di macchine. Uno sfregio di lamiera a bellezze uniche al mondo, che si ripeteva immutabile nei centri storici di ogni città  italiana.

La svolta avvenne il 30 dicembre del 1980: la giunta comunale di Roma guidata dal sindaco Luigi Petroselli, approvò la norma che avrebbe potuto tracciare la strada per cambiare il profilo al volto delle nostre città : il nuovo assetto dei Fori Imperiali che avviò la restituzione del Colosseo e di quella meravigliosa area archeologica al suo proprio destino, diverso da quello di un comune spartitraffico. Qualcosa di buono da allora è stato fatto, ad esempio la pedonalizzazione a Roma dalla seconda metà  degli anni 90 è cresciuta, ma nel complesso nel nostro Paese circolano ancora troppe auto, 61 ogni 100 abitanti.

Di conseguenza nel nostro Paese tira proprio una brutta aria, perché 29 sono i capoluoghi che negli ultimi quattro mesi hanno superato per 35 giorni di i limiti di polveri sottili consentiti per legge. Non stupisce dunque che le città  italiane sono mediamente le più inquinate d’Europa, perché delle 30 città  europee più inquinate, ben 17 sono italiane, con il nostro Paese che ne presenta ben tre tra le prime quattro. La città  che in tutta Europa ha la qualità  dell’aria peggiore è Plovdiv, in Bulgaria, ma al secondo, terzo e quarto posto troviamo Torino, Brescia e Milano.

Questo per dire che riorganizzare la vita e la mobilità  nei centri urbani è un urgente obiettivo ambientale , ma anche sociale e economico, perché le città  con meno auto sono città  restituite alla vita collettiva, e sono pure centri economicamente più vitali dove per esempio, come dimostrano innumerevoli esperienze, tra i primi ad avvantaggiarsi delle misure di pedonalizzazione vi è il commercio.

Tutto questo ci racconta il provvedimento che entra in vigore oggi a Firenze, non solo una “narrazione” ma un atto concreto, politico che andrebbe copiato da tutti gli amministratori e dovrebbe aiutare il centrosinistra a mostrare maggior coraggio.

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

Non è un miracolo

”Pronti a vincere di nuovo”, recitava uno striscione di Legambiente visto nelle piazze referendarie, richiamando i plebisciti antinucleari del 1987. Così è andata e in apparenza è stato un miracolo, un grande colpo di scena. Dopo 16 anni di referendum falliti sempre più rovinosamente, questo voto ha rovesciato un trend che sembrava inarrestabile, oltretutto avvalorato dall’astensionismo crescente in tutte le elezioni.
In apparenza è stato un miracolo, nella sostanza invece è stata una conferma. La conferma che nella storia repubblicana i cambi di stagione sono spesso annunciati da eventi referendari: nel 1974 il divorzio, nel ’91 i referendum elettorali, ora l’acqua pubblica e il no al nucleare. Tutte svolte promosse da outsider politici e sociali – i radicali, Segni, i movimenti contro la privatizzazione dell’acqua e gli ambientalisti oltre allo stesso Di Pietro -, e che mai hanno visto le rappresentanze “generaliste”, grandi partiti e
sindacati, come protagonisti.
Anche i referendum di domenica e lunedì segnano un passaggio di stagione, più ancora delle elezioni di Milano e di Napoli. Oggi può cominciare per l’Italia il nuovo secolo, dopo che il vecchio era finito 20 anni fa, congedato di nuovo da un referendum, ma dopo 20 anni di una terra di nessuno lungo la quale né la sinistra né la destra hanno saputo mettersi alla guida di un vero cambiamento.
Quale il significato di questa svolta? Molti diranno, qualcuno ha già  detto che i referendum hanno avuto successo come voto politico contro Berlusconi, e che il merito dei quesiti ha contato molto meno. Noi la pensiamo all’opposto, riteniamo che il valore storico di ciò che è successo sia proprio nell’imporsi sulla scena del dibattito pubblico di temi, di bisogni che evidentemente già  da tempo pesano molto nella testa degli italiani ma che la politica ha finora trascurato: i beni comuni, l’ambiente, la voglia di una politica meno separata dalla società  e con meno privilegi; in una parola, quel sentimento inedito, e adesso scopriamo dirompente, che diversi commentatori hanno sintetizzato come rivincita dell’interesse civico sull’individualismo e il “privatismo” di questi anni.
Come si diceva, anche in questo caso la novità  è maturata fuori dai grandi
partiti, e fuori anche – va detto – dai media tradizionali e da tutti i talk-show politici televisivi, di ogni colore. Ma mentre la destra esce da questa prova con le ossa rotte – sue tutte le leggi abrogate, suo e solo suo il tentativo di cancellare o vanificare il voto -, il centrosinistra e in particolare il Pd hanno avuto il merito, il grande merito, di intuire per tempo che questo passaggio non era solo un’altra tappa nella battaglia di opposizione al governo, ma era di più: ci sono questioni, dimensioni che oggi per gli
italiani hanno un’importanza prioritaria e che finora la politica ha
largamente trascurato.
Ha capito, il Pd, che nel movimento per l’acqua pubblica c’è un’idea di progresso rinnovata e più avanzata, che rifiuta il riduzionismo liberista per il quale ogni bisogno, ogni spazio sociale, ogni bene comune vanno trattati come merce. E ha capito ben prima della tragedia di Fukushima che il nucleare è una risposta sbagliata, vecchia a un problema certo reale ed urgente: liberare i sistemi energetici dall’egemonia del petrolio e dei combustibili fossili. E’ probabile che in Italia il nucleare non avrebbe mai rivisto la luce: perché davvero si tratta di un’opzione obsoleta, pericolosa e costosissima, e perché non avrebbe senso che mentre il mondo più vicino a noi, Germania in testa, cerca di spegnere il prima possibile le sue centrali, noi ci lasciamo trascinare da Berlusconi, da Scajola, dall’Enel in direzione opposta. Dopo questo voto, finalmente l’ipotesi di ritorno al nucleare finirà  in archivio, e l’Italia potrà  dedicarsi a un vero e nuovo piano energetico, fondato su efficienza e rinnovabili, che punti sul gas come energia fossile di transizione e prepari una società  e un’economia “fossil-free” in cui si affermi un modello di produzione energetica pulito e distribuito.
Il Pd è stato bravo ad assecondare il cambiamento in atto, ma se vogliamo che questa diventi la nostra vittoria  dobbiamo mettere a frutto la lezione, impegnarci sul serio a cambiare passo, agenda, linguaggi, a ricostruire anche su queste sensibilità  maggioritarie rivelatesi nei referendum – sensibilità  decisamente trasversali e radicate pure nei settori di elettorato meno politicizzati, i mitici “moderati” – la nostra alternativa. Il popolo dei referendum alla politica chiede questo, sta a noi dare risposte all’altezza.
 

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

Il nuovo che ri-avanza

Il disastro elettorale di Pdl e Lega ha rotto due incantesimi che duravano con rare eccezioni (per lo più solo apparenti) da almeno dieci anni.

Primo incantesimo: l’idea che il centrodestra berlusconiano fosse molto più adatto e bravo del centrosinistra a compenetrarsi con le convinzioni e i sentimenti profondi degli italiani.  Idea radicatissima in tutti noi “progressisti”, il più delle volte accompagnata quasi a mo’ di consolazione dal “complesso dei migliori”: come dire “noi siamo molto meglio degli altri, ma gli italiani sono in maggioranza rozzi e ignoranti e per questo non ci amano”.  Oggi per la prima volta dopo molto tempo, non è così. Oggi per la prima volta vediamo che la destra non riesce a capire il Paese, e scopriamo di essere noi più vicini agli italiani. Più vicini in molte convinzioni: l’urgenza di politiche economiche che di fronte alla crisi economica, e al rischio evidente che il declino italiano diventi inarrestabile, spingano lo sviluppo oltre a presidiare l’equilibrio dei conti pubblici; l’urgenza di dare risposte concrete al disagio giovanile che cresce; l’insensatezza del programma di ritorno al nucleare e in generale la necessità  di dare molto più peso alla tutela dell’ambiente e dei beni comuni. Ci scopriamo più vicini agli italiani anche in alcuni sentimenti, primo fra tutti il disgusto davanti allo spettacolo, anticipato molti mesi fa da Veronica Lario e ormai conclamato,  del drago-Berlusconi cui vengono offerte in dono decine di giovani vergini  (noi, ingenui, pensammo allora a una metafora…).

Anche un secondo incantesimo s’è rotto con questo voto. Quello che mostrava come inarrestabile l’ascesa della Lega e la sua tracimazione al di sotto del Po, l’incantesimo che consentiva ai leghisti un perenne doppio incasso, come partito di governo e potere e come partito di lotta. Che permetteva loro, senza pagare alcun pegno politico e anzi continuando a crescere nei consensi, di votare a Roma per la privatizzazione dell’acqua e di strillare in Padania contro l’acqua ai privati, o di approvare con Zaia ministro norme ultra-centraliste in materia di ritorno al nucleare salvo poi irriderle qualche giorno dopo con Zaia governatore del Veneto.  Questo gioco sembra avere perso di efficacia, la Lega di lotta e di governo frana da Novara a Pavia, da Milano alla stessa Varese dove pure riesce a salvare il suo sindaco.  
Ma il terremoto elettorale fa giustizia anche di alcuni luoghi comuni largamente frequentati nel centrosinistra. Come il ritornello che destra e sinistra siano categorie ormai prive di senso. Non hanno senso, sicuramente, un’idea di destra e un’idea di sinistra che restano imprigionate nel Novecento, ma raramente un risultato elettorale ha evidenziato con tanta chiarezza a Milano come a Napoli, a Cagliari come a Trieste, la dialettica tra due visioni polarizzate di ciò che serve al buon governo delle città  e del Paese. E poi, questo davvero lo speriamo, la sconfitta del centrodestra spazza via un’altra storiella mai verificata nei fatti eppure durissima a morire: che il centrosinistra per essere competitivo debba nascondersi dietro la faccia di leadership moderate. E’ vero quasi il contrario: i successi  più vistosi e sorprendenti li abbiamo ottenuti dove ci siamo affidati a leader radicali, a figure – Pisapia, De Magistris, Zedda –  che da una parte sono tutt’altro che “impolitiche” (forse sta declinando anche il”mito” del candidato prestato dalla società  civile?) ma che sono incarnate da veri outsider, lontani dal cursus honorum degli apparati di partito, portatori di visioni di profondo cambiamento, di decisa discontinuità , di “buona politica”. Figure, va detto, senza esperienza amministrativa alle spalle, e che ora devono dimostrarsi all’altezza della prova del governo; e però politici capaci, questo è evidente, di calamitare i voti cosiddetti moderati assai meglio degli stessi candidati centristi: Pisapia preferito alla Moratti – così dicono le analisi elettorali dei risultati del primo turno – dal “popolo delle partite Iva”, De Magistris plebiscitato dagli elettori del Terzo Polo.

Queste leadership, dunque, sono state vincenti non perché segnate da un’impronta antagonista o estremista, tant’è che il loro successo non è accompagnato da analoghi exploit di Sel o dell’Italia dei valori, ma per il loro carattere innovativo: lo stesso sapore di novità , di rifiuto delle candidature di apparato, che ebbe tre anni fa la vittoria imprevista di Matteo Renzi nelle primarie di Firenze. La riuscita elettorale di tutti questi “laboratori”, pure per una parte nati fuori dal Pd, evoca assai bene l’originaria “vocazione maggioritaria” del Partito democratico fatta dell’ambizione di dare forma e forza a un riformismo radicale, nutrito di parole e valori – ambiente ed economia verde, nuovi diritti, bisogni giovanili, buona politica, le primarie come strumento irrinunciabile per un grande partito popolare – certo generici, come sono sempre le basi per costruire un’identità  politica, ma contemporanei. Da qui, ci auguriamo, ripartirà  il Pd, e allora davvero queste belle giornate possono annunciare un nuova, bella e lunga stagione.

Roberto Della Seta                                                                                                                                       Francesco Ferrante

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