Non bisogna certo essere accaniti giustizialisti in Italia per nutrire dei dubbi sul concetto di certezza della pena nel nostro Paese. La cronaca spesso ci restituisce un’immagine di un sistema giudiziario inefficiente e inefficace e che spesso suscita l’impressione che chi sbaglia non paghi fino in fondo. E molte volte a questa sensazione se ne accompagna un’altra relativa alla pena dell’ergastolo che invece è falsa. L’ergastolo, la massima pena prevista nell’ordinamento giuridico penale italiano per un delitto sarebbe una pena non abbastanza dura perché un luogo comune piuttosto diffuso dice che “non è a vita, dopo un po’ escono tutti”. Invece no, in Italia di ergastolo si muore. O meglio, nelle nostre carceri si infligge e si sconta una “pena di morte viva”. Così l’ha chiamata Carmelo Musumeci, ergastolano, scrittore e attivista per i diritti dei reclusi. In Italia infatti è in vigore l’ergastolo ostativo, ovvero un ergastolo che non prevede assolutamente l’eventualità che la pena carceraria si possa tramutare in una pena alternativa, non prevede permessi, per alcun motivo: si passa la vita dietro le sbarre, fino al giorno in cui il medico del carcere certificherà la morte del detenuto. Per questo a Carmelo le autorità hanno negato il permesso di venire a rendere la sua testimonianza a Roma in Senato, martedì 2 ottobre, al convegno che abbiamo organizzato con Antigone, l’associazione Papá Giovanni XXIII, la Scuola di Filosofia fuori le mura e il Dipartimento di Teoria e Metodi delle Scienze umane dell’Università di Napol su “Ergastolo e democrazia”. Al convegno parteciperanno oltre a Nadia Bizzotto e al professor Giuseppe Ferraro, ideatori dell’iniziativa, e ai colleghi Di Giovanpaolo, Bonino e Fleres, giuristi ed e esponenti della società civile impegnati sul fronte dei diritti e della civiltà (da Gherardo Colombo ad Agnese Moro, Paolo Ramonda a Stefano Anastasia, da Luciano Eusebi a Carlo Fiorio, da Andrea Pugiotto a Eligio Resta).
Sarà l’occasione per tornare a parlare di ergastolo, una pena che contraddice spirito e sostanza della nostra costituzione e in particolare dell'”ostativo”. Spiegheremo che il detenuto condannato a questa pena ha una sola possibilità per sperare in un ‘ora di permesso, o che un giorno gli vengano riconosciuti i benefici di legge, di legge insisto: occorre che collabori, ovvero che faccia i nomi di altri coinvolti in reati gravi collegati alla criminalità organizzata. Un “pentimento”, che in alcuni detenuti possiamo e dobbiamo ritenere sia sincero, che può dimostrarsi solo in un’azione che per molti equivale a coinvolgere la famiglia, che all’esterno potrà diventare il bersaglio di vendette trasversali.
Non stupisce dunque che la grandissima maggioranza di chi ha un ergastolo ostativo non diventi un collaboratore di giustizia. Una voce altamente autorevole come quella l’ex presidente della Corte Costituzionale Onida, nel rispondere a precise domande di Musumeci e altri condannati nelle sue condizioni, ha confutato il nesso tra ravvedimento e pentimento espresso con la collaborazione con la giustizia.
Sia chiaro che non è in discussione qui l’obbligo di infliggere una pena severa, ma è il caso però di riflettere se quella che è una sostanziale sentenza di morte, semplicemente diluita nel tempo, sia conforme ai principi di uno stato di diritto, a partire dal nostro e dalla nostra Carta.
Il ravvedimento del condannato è il fine ultimo dello Stato che si assume l’onere di punire il colpevole, ma l’ergastolo ostativo è la negazione assoluta del concetto, perché una persona che uscirà solo da morta da un penitenziario, consapevole di questo destino, non potrà mai ovviamente dimostrare alla società se e quanto sia cambiato.
L’ergastolo ostativo è l’espressione più eclatante dell’annichilimento del percorso di recupero, ma occorre avere il coraggio di affrontare questioni impopolari quali l’ergastolo nella sua forma più diffusa e più in genere la funzionalità del carcere e della pena.
Noi riteniamo che sia giusto dire la verità , elevare il livello di giustizia e democrazia di uno stato affrontando lo stato delle carceri e dei detenuti, con un approccio scevro di emotività e facile demagogia.
E’ arrivato il momento, come disse il cardinal Martini, di non limitarsi a pensare a pene alternative, e già sarebbe qualcosa visto l’intollerabile sovraffollamento delle carceri, ma è necessario cominciare a ragionare seriamente su alternative alle pene.