Amnistia, ma non solo

I numeri delle carceri italiane sono penosamente noti. O almeno dovrebbero esserlo, dato che si parla della vita di decine di migliaia di persone. Della vita che molti, anche per le  condizioni indegne di detenzione, si tolgono per disperazione. Le ultime lugubri cifre tratte dal Dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti recitano così: 20 detenuti suicidi da inizio anno, 57 il totale delle morti in cella. Un suicidio ogni 5 giorni, un decesso ogni 2. L’età  media dei detenuti che si sono tolti la vita è di 35 anni, 6 erano stranieri e 14 italiani. Altre 23 persone sono morte in cella per “cause naturali” (avevano un’età  media di 40 anni), mentre su 14 decessi sono in corso indagini volte ad appurarne le cause. Impressionante la “serie storica”: dal 2000 ad oggi sono 712 i detenuti che si sono suicidati (58 di media l’anno) e 1.990 il totale dei decessi in carcere (160 di media l’anno). Nello stesso periodo nelle carceri della Turchia, dove sono rinchiusi circa 100mila detenuti, i decessi sono stati poco meno di 1.000 (dati del Consiglio d’Europa).

Quest’ultimo raffronto la dice lunga sulle condizioni detentive nelle carceri italiane. Ma vi è un altro dato statistico che dice con ancora più eloquenza del modo inaccettabile in cui l’Italia tratta i suoi detenuti: nonostante i recenti, drammatici casi di suicidi causati o favoriti dalla crisi economica, restiamo uno dei Paesi europei dove meno persone scelgono il gesto estremo e disperato del suicidio, ma se si limita lo sguardo all’universo carcerario siamo invece il il Paese dove ci si suicida di più.

Di fronte a una situazione così, la cui prima causa è nel sovraffollamento delle strutture carcerarie – quasi 70mila detenuti in luoghi che ne dovrebbero ospitare poco più della metà  -, la prima condizione perché in Italia si possa parlare di vera giustizia, per dare senso al principio scritto in Costituzione che afferma la funzione riabilitativa della pena, è una immediata e drastica riduzione del numero delle persone detenute, anche attraverso lo strumento dell’amnistia. Perché a una grave emergenza sociale, che provoca così tanti morti, occorre rispondere con misure d’emergenza. In tanti ripetono che l’amnistia farebbe crescere il numero dei reati, ma questo è un luogo comune del tutto infondato come dimostra l’esiguo numero di recidive che si è registrato a seguito dell’ultimo indulto.

Certo l’amnistia non basta, occorre contemporaneamente cambiare due tra le leggi più odiose che ci ha lasciato in eredità  il ventennio berlusconiano: la Bossi-Fini e le altre norme sull’immigrazione irregolare, per le quali le nostre carceri sono affollate anche da chi ha come unica colpa quella di essere venuto in Italia senza permesso di soggiorno; la Fini-Giovanardi, frutto di un approccio ideologico e punitivo al problema delle tossicodipendenze, che colpisce con il carcere anche tanti che avrebbero bisogno di “cura” e non di “pena”.

Nelle carceri italiane vi sono troppi detenuti e troppo pochi agenti, costretti a lavorare in condizioni assai dure. Contro questa vergogna si battono  da anni soprattutto i radicali, che ieri, 25 aprile, hanno tenuto a Roma una marcia per la giustizia, l’amnistia, la libertà  alla quale chi scrive ha scelto di aderire. La data scelta per questa bella iniziativa non è ovviamente casuale: gli stessi valori di umanità , di civiltà  per i quali 70 anni fa i partigiani diedero il proprio sangue e offrirono il loro coraggio, sono negati e calpestati se si condanna alla disperazione del suicidio chi è stato privato della libertà  per la sicurezza di tutti.

 

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante