Nei “totogoverno” che affollano in questi giorni i media, ci sono caselle di serie A, B e C. Per le prime (interni, esteri, difesa, giustizia, economia) corrono leader o outsider eccellenti.
Nei “totogoverno” che affollano in questi giorni i media, ci sono caselle di serie A, B e C. Per le prime (interni, esteri, difesa, giustizia, economia) corrono leader o outsider eccellenti. Le seconde e le terze sono per gli altri. Lo schema sembra convincente: è naturale, sensato che il capo di un grande partito voglia occuparsi di temi importanti, strategici per il paese e la coalizione. Qualche dubbio sorge, invece, sui criteri in base ai quali un ministero è qualificato o no di serie A. Esattamente dieci anni fa, suscitò sorpresa la decisione dell’allora vicepremier Walter Veltroni di andare a fare, anche, il ministro dei beni culturali, ruolo tradizionalmente ritenuto marginale. In realtà , fu un atto di grande, davvero grande, intelligenza politica. Non solo perché Veltroni, per giudizio unanime, svolse la sua funzione in modo e con risultati eccellenti, ma perché con quella scelta inedita trasmise al mondo politico, e al paese, un messaggio quasi rivoluzionario: tutelare e valorizzare le nostre ricchezze storiche, monumentali, archeologiche e paesaggistiche, promuovere le attività di creazione artistica, è uno dei primi investimenti – in termini culturali ma anche civili ed economici – per dare all’Italia un futuro di benessere. Oggi ci sarebbe un estremo bisogno di analoghi segnali di novità . Soprattutto, ne servirebbero in una direzione che tutti, nel centrosinistra e non solo, indicano come prioritaria: la scuola, l’università , la ricerca. Partiti e schieramenti, Confindustria e sindacati, intellettuali e osservatori stranieri, su un punto concordano: la possibilità che l’Italia scongiuri i rischi di un progressivo e presto inarrestabile declino passano in primo luogo per un rilancio forte delle politiche per l’educazione, la formazione, la conoscenza. Su questo terreno, infatti, siamo indietro, vistosamente indietro rispetto a gran parte dell’Europa: lo dicono i numeri – la percentuale dei diplomati e dei laureati sensibilmente più bassa della media europea, gli alti tassi di evasione dall’obbligo scolastico – e lo dicono fenomeni altrettanto oggettivi come la “fuga dei cervelli” (i laureati italiani “emigrati” sono quasi dieci volte i laureati stranieri presenti in Italia), o il numero sempre più piccolo di brevetti hi-tech registrati nel nostro paese. E poiché per competere nell’economia globale non potremo certo contare su bassi costi del lavoro – campo nel quale i paesi emergenti hanno, per fortuna nostra e loro, un vantaggio incolmabile – né tantomeno sull’abbondanza di materie prime, solo colmando il gap di “conoscenza” con gli altri paesi industrializzati – e puntando sulla soft economy, l’economia del made in Italy, della cultura e del territorio, anch’essa ad alto valore aggiunto di informazione – riusciremo a dare gambe sufficientemente forti e veloci alla nostra economia. Bene. Queste considerazioni persino banali sono condivise, a parole, da tutti. E allora sarebbe bello se nel governo Prodi toccasse a un grande leader politico – Fassino, D’Alema, Rutelli – vestire i panni, così delicati e così decisivi, di ministro dell’istruzione e dell’università .