Articolo pubblicato da Il Manifesto
E’ nata in questi giorni una “sinistra Pd”? Qualche giornale l’ha scritto, commentando l’incontro di una decina di parlamentari democratici, tra cui chi scrive, con Nichi Vendola. E l’interpretazione sembra confermata dal fatto che più o meno le stesse persone hanno aperto di recente due altri “fronti interni”: contestando con forza la “deriva sudamericana” della Fiat di Marchionne, che sostenuta con entusiasmo dal governo e con diverse simpatie pure nel Pd ricatta il Paese minacciando di andarsene se non si riducono garanzie e diritti per i lavoratori; e chiedendo di ripensare la posizione del partito sulle missioni di pace e in particolare sulla presenza militare italiana in Afganistan, finora attestata su un appoggio acritico e notarile ai periodici decreti di rifinanziamento che giungono al voto delle Camere: siamo assolutamente affezionati al principio dell’ingerenza umanitaria, basta intendersi sull’aggettivo “umanitaria”..
Allora, è proprio questa l’intenzione – dare corpo a una posizione di sinistra nel Pd – di chi invoca una sensibile e visibile correzione della rotta democratica sui temi dei diritti sociali, della politica estera, degli assetti futuri del centrosinistra? Si può pure metterla così, basta sapere che a chiedere al nostro partito uno scatto di coraggio, a volerlo un po’ meno pigro e un po’ più risoluto, sono dirigenti – e sono, crediamo, moltissimi elettori, altrimenti non si spiegherebbero i recenti sondaggi che danno un largo seguito nel centrosinistra per Vendola (tutti comunisti?) – le cui sensibilità scavalcano e confondono i confini tradizionali tra ex-Ds ed ex-Margherita, tra radicali e moderati. Insomma, come dimostrano le biografie decisamente eterogenee di coloro che hanno condiviso tali critiche, questo nostro non è un disagio che nasca dalle vecchie appartenenze e tanto meno dalle recenti militanze congressuali: riguarda il presente e il futuro del Pd, la sua stessa ragione sociale.
Semplicemente c’è un po’ di gente tra i democratici convinta che per essere competitivi, o anche semplicemente riconoscibili, bisognerebbe che ci mostrassimo radicalmente alternativi alla destra sui programmi e sui valori. Bisognerebbe che se di fronte agli ultimatum di Marchionne i liberisti d’antan e quelli di ritorno ripetono “è la globalizzazione, bellezza”, noi non ci accodassimo. Che prima di considerare Casini più riformista ed elettoralmente più solido di Vendola, almeno se ne discuta. Che non ci si sdraiasse sul quadro di regole e procedure che attualmente governano le nostre missioni militari all’estero, a cominciare dall’Afganistan.
L’elenco può continuare. Per esempio: per quale diavolo di ragione il Pd, che ha di fronte il governo e la destra più antiecologici di tutta Europa, non innalza l’ambiente, il no al nucleare e il sì all’innovazione energetica e alla “green economy” – temi non solo sacrosanti ma sempre più popolari – come suoi cavalli di battaglia?
L’ambizione da cui è nato il Pd – dare vita a una grande forza progressista che aggiorni e allarghi l’orizzonte dei riformismi novecenteschi – non può venire sfigurata nella ricerca di un’alleanza tattica con qualche sigla moderata: sarebbe la fine non tanto del Partito democratico quanto dlla possibilità ravvicinata dui una vera, vincente alternativa all’idea di Italia e di futuro ottimamente riassunta nell’asse Pdl e Lega.
Dunque, saremo pure la sinistra Pd. Ma soprattutto siamo, ci pare, un campanello d’allarme – uno degli ultimi? – sulla terribile difficoltà del Partito democratico, pur di fronte ai declino rovinoso del potere berlusconiano, di dare un senso e un futuro a questa storia.
ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE