Berlusconi ha ragione: un problema dell’Italia è che nella sinistra pesa
troppo l’eredità comunista. Solo che per come la mette lui, questo è ciò che
rende minacciosa l’alternativa rappresentata oggi dal Pd e ieri dai Ds e dai
loro alleati, mentre in realtà è stata la salvezza del berlusconismo, la
ragione principale per cui il centrosinistra è sempre meno competitivo.
Come ha detto Walter Veltroni intervenendo al convegno di Area democratica a
Cortona, il Pd per lanciare alla destra una sfida credibile e potenzialmente
vincente deve gettare la zavorra che ha impedito finora l’affermazione in
Italia di un vero riformismo. Questa prospettiva non può nascere dalla fusione
di due tradizioni – quella comunista, quella cattolico-democratica – che
troppi di noi continuano a raccontare, e a raccontarsi, come riformiste ma che
propriamente riformiste non sono mai state e anzi presentano un alto tasso di
conservatorismo. Deve certo, il Pd, tenersi stretto il meglio di quelle storie
– che ha la sua sintesi più degna e attuale nell’impronta solidarista della
nostra Costituzione – ma soprattutto deve trovare nuovi linguaggi, nuovi
contenuti culturali e programmatici.
Per questo è nato il Pd, ma in meno di tre anni quel progetto è franato. La
distanza enorme tra il Pd del 2007-2008 e quello di oggi è un fatto persino
ovvio.
Distanza nei numeri, distanza nelle ambizioni, a cominciare dalla cosiddetta
“vocazione maggioritaria”. Abbiamo perso in due anni 5 milioni di voti, ormai
chi ci vota lo fa per abitudine, per appartenenza, per nostalgia, talvolta per
apprezzamento verso una buona tradizione amministrativa, ma non certo perché
facciamo intravedere un’idea di futuro, una prospettiva di governo che siano
realistiche e attraenti.
Tutti i nostri competitori (Pdl, Lega, Idv) sono identificabili e identificati
con quattro, cinque parole chiave. Noi no, e questo perché noi per primi non
sapremmo indicare in modo condiviso cinque parole nelle quali ci riconosciamo
come partito.
Questa incertezza identitaria produce, tra i suoi effetti più deteriori, la
tentazione ricorrente di metterci al traino di altri con l’idea che così ci
possiamo appropriare di sensibilità , aspirazioni che ci sembrano popolari, “di
moda”. Di volta in volta, quest’abitudine ci fa compiere improbabili
incursioni a destra come a sinistra, con effetti velleitari e talvolta
cacofonici che si tratti di qualche nostro dirigente che fa il verso ai
leghisti sulla sicurezza o magari dell’intero partito che si accoda al
cosiddetto popolo viola. Ma ciò non solo certifica la minorità , la
subalternità culturale del Pd, è anche un’idea illusoria sul piano tattico:
fare il “vagone”, spesso l’ultimo vagone di coda, di un treno guidato da altri
non porta infatti alcun consenso.
Sempre a Cortona Paolo Gentiloni ha sottolineato che il Pd ha un senso e un
futuro se recupera in fretta la sua ispirazione originaria. Questo significa,
in concreto, batterci prima ancora che per trovare un’identità , per ritrovare
credibilità . Spesso diciamo cose che in molti considerano giuste e importanti
ma che dette da noi suonano poco credibili.
Ciò accade per esempio sul terreno dell’etica pubblica. Se vogliamo che gli
italiani ci affidino le loro speranze di una politica più pulita e
trasparente, meno separata dalla società , il primo passo è fare pulizia e
creare trasparenza in casa nostra, a cominciare dal Mezzogiorno dove i nostri
gruppi dirigenti sono in più di un caso altrettanto opachi e impresentabili di
quelli della destra.
Se non partiamo da qui, è del tutto inutile lanciare allarmi contro
l’astensionismo, contro l’anti-politica, contro chi ci vede come “casta”.
Poi dobbiamo impegnarci per selezionare e presentare la nostra “tavola dei
colori”, avendo piena coscienza che per scegliere colori sensati e
convincenti, colori che ci scrollino di dosso l’immagine di partito
“conservatore”, serve andare ben oltre il recinto programmatico e valoriale
che era di Ds e Margherita.
Della “tavola dei colori” di cui abbiamo bisogno l’ambiente, se si preferisce
la green economy, è una parte essenziale: indispensabile, lo ricordava pochi
giorni fa su queste pagine Ermete Realacci, per ragionare di sviluppo con gli
occhi e la testa in questo secolo e per riannodare un rapporto con molti mondi
sociali e produttivi che oggi ci ignorano o ci snobbano (nell’economia reale,
noi richiede le maggiori discontinuità e innovazione, essendo quasi del tutto estranea alle famiglie politiche fondatrici del Pd. E richiede prima di tutto che torniamo a coltivare la nostra vocazione maggioritaria: se infatti il Pd sceglie la strada di un’identità troppo parziale e decisamente antica, qual è la somma tra post-comunisti e post-democristiani, l’ambiente cercherà e troverà altre vie per farsi spazio nell’offerta politica. Non è obbligatorio che tocchi a noi rappresentare questa sensibilità , basta dare un’occhiata in giro per il mondo: qualche volta, per esempio nell’America di Obama, sono i grandi partiti progressisti a intestarsi con forza la questione ambientale, in tanti altri casi sono forze squsitamente ecologiste, come i Verdi in Germania o Europe Ecologie in Francia, o magari come in Inghilterra sono i Liberali ed è addirittura la destra che ha vinto le elezioni con un programma molto più verde di quello di Brown. O in Italia questo tema lo innalza il Pd, oppure quanti non si rassegnano al fatto che a prendere voti in nome dell’ambiente siano solo i “grillini”, finiranno per rivolgersi altrove.
Per quanto ci riguarda, il punto non è minacciare scissioni o abbandoni, è
molto più banale. Se stessimo in Germania o in Francia, da ecologisti
“riformisti” sceglieremmo i Verdi o Cohn-Bendit, se votassimo in Inghilterra
sceglieremmo i liberali di Clegg. In Italia faticheremmo a scegliere il Pd se diventa un partito cripto- socialista oppure la replica fuori tempo di un
compromesso storico che di storico, a questo punto, non avrebbe più nulla.
Roberto Della Seta e Francesco Ferrante