Legambiente va a aCongresso

Da venerdì a domenica Legambiente tiene a Roma il suo congresso nazionale: l’ottavo da quando siamo nati (era il 1980, ci chiamavamo Lega per l’Ambiente). Per chi scrive, questo sarà  l’ultimo congresso da dirigenti di un’associazione che abbiamo visto – forse in piccola parte fatto – crescere, e che di sicuro ci ha visto e fatto crescere, avendola entrambi incontrata da obiettori di coscienza più di vent’anni fa, e mai più lasciata.
Si parlerà , nei tre giorni del congresso, di come sta Legambiente – la soddisfazione per i soci e i circoli che continuano a crescere, la necessità  di radicarci sempre di più nei territori e di intrecciare sempre meglio le ragioni dell’ambiente con i bisogni sociali; la scelta irrinunciabile e irreversibile dell’autonomia politica -, e si parlerà  molto di come sta l’ambientalismo.
Nel documento preparatorio del congresso, abbiamo scritto che oggi l’ambientalismo è un gigante culturale ma un nano politico. I problemi legati alla qualità  ambientale, alla sostenibilità  dello sviluppo – l’inquinamento, la dissipazione delle risorse, adesso i mutamenti climatici – sono solidamente insediati nell’opinione pubblica: anche i negazionisti più incalliti faticano ormai a ridurne la portata. Però questi temi ancora non sono protagonisti nell’agenda della politica.
I motivi di tale contraddizione sono diversi, in parte nascono dall’obbiettiva difficoltà  di modificare, aggiornare idee profondamente incardinate nella storia politica, sociale, culturale del Novecento: una nozione prevalentemente economica del benessere e del progresso, la convinzione che la crescita economica, anche nella sua dimensione di prelievo e consumo delle risorse naturali, sia una prospettiva illimitata. Ma questa inerzia ha trovato finora solida sponda in un limite forte della cultura ambientalista: l’incapacità  di convincere che la riconversione ecologica che noi proponiamo sia non soltanto “giusta”, ma sia “desiderabile”, desiderabile dalle persone e dalle comunità  in carne e ossa.
Forzare questo limite è il grande problema dell’ambientalismo nel XXI secolo. Legambiente da tempo prova a forzarlo qui in Italia: investendo gran parte delle sue energie per dimostrare che tutelare l’ambiente, lottare contro l’inquinamento e contro il “global warming”, per un Paese come il nostro è un interesse strategico anche in termini economici, sociali. Qualche esempio? L’Italia importa quasi tutto il petrolio che consuma, puntare sull’efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili (solare, eolico) serve come il pane alla nostra autonomia energetica e alla competitività  delle nostre imprese. O ancora: per essere protagonista nel mondo che si va globalizzando, l’Italia deve scommettere sulle sue risorse più tipiche, che per una gran parte – dal paesaggio, ai beni culturali, fino alla miscela di creatività , coesione sociale, capacità  d’innovare e legame con il territorio e con le sue tradizioni che è l’anima del successo del “made-in-Italy” – sono ricchezze immateriali e dunque ecologiche.
L’ambiente, insomma, come metafora del nostro futuro più promettente e più realistico. Una via, però, che fino ad oggi in troppi – nelle classi dirigenti – non riescono a vedere o non fanno abbastanza per concretizzare. Dal nostro congresso, noi ci rivolgeremo in particolare alla politica: chiedendo agli interlocutori che verranno a confrontarsi con noi – da Bertinotti a Veltroni, da Pecoraro Scanio a Rutelli e ad Alemanno – di lavorare per un’opera – urgente, indispensabile – di riaffermazione dell’interesse generale non contro ma sopra gli interessi parziali che oggi dominano la scena. Un’opera che per noi è anche la premessa perché l’ambiente – bisogno diffuso ma non “costituito” – occupi davvero e non solo nelle buone intenzioni il centro della scena politica.
L’antipolitica, noi crediamo, si combatte prima di tutto così, riannodando con il filo dell’interesse generale il rapporto quanto mai lacerato tra rappresentanti e rappresentati. A questo obiettivo devono concorrere tutti i protagonisti della vita nazionale: partiti, istituzioni, forze sociali, cittadinanza attiva. Distinti nei ruoli ma accomunati dalla consapevolezza – prendiamo in presti le parole dette anni fa da un grande europeo, Vaclav Havel – che il vero segno distintivo di una classe dirigente è nella “responsabilità  verso qualcosa di più alto della propria famiglia, del proprio partito, del proprio successo, delle proprie fortune particolari”, nella “responsabilità  di trovarsi nel luogo dove tutte le azioni lasciano un segno indelebile e dove saranno giudicate”.

Roberto Della Seta, Francesco Ferrante