pubblicato su huffingtonpost.it
Capiterà mai che il Pd cacci o metta ai margini un suo dirigente prima che arrivi la magistratura ad arrestarlo o processarlo per corruzione e abusi vari? Capiterà mai che i Democratici capiscano che un conto è la sanzione penale, che ha i suoi tempi (lunghi) e le sue regole (giustamente garantiste) e un conto la sanzione reputazionale, cioè la scelta di allontanare i troppo “chiacchierati”, di provare a costruire un rapporto meno torbido tra politica e denaro? Insomma: il Pd saprà arrestare la deriva che rischia di trasformarlo nella riedizione contemporanea del partito delle “mani sulla città ” raccontato mezzo secolo fa in un film memorabile da Francesco Rosi?
Finora non è quasi mai accaduto. Non è accaduto con Penati, capo segreteria dell’allora leader Pd Bersani fino all’esplodere dello scandalo sulle tangenti a Sesto San Giovanni. Non è accaduto a Taranto, dove alle scorse elezioni il Pd ha ricandidato senza battere ciglio un deputato uscente – Ludovico Vico – che al telefono con i collaboratori dei Riva prometteva di far “buttare sangue” a chi nel suo partito rompeva le scatole ai signori dell’Ilva. Non è accaduto nel Lazio alle scorse regionali, con i consiglieri Pd indagati per malversazioni che Zingaretti ha messo fuori dalle liste e ora siedono in Parlamento. Non è accaduto per le primarie regionali liguri: prima del voto con gli allarmi e le denunce di Cofferati sui rischi di inquinamento del voto lasciati senza risposta, dopo il voto con la condanna ipocrita da parte dei vertici del Pd della decisione, inevitabile, dello stesso Cofferati di abbandonare quello che fino a una settimana fa era il suo partito.
Come ha scritto sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi, non sta accadendo in questi giorni a Venezia. Secondo Giavazzi:
“le primarie del Partito democratico per il sindaco di Venezia sono la dimostrazione che in Italia il consenso politico continua a potere essere acquistato. Con la differenza che ora comprarlo costa non più di qualche spicciolo: quanto necessario per organizzare poche migliaia di cittadini e spedirli a votare alle primarie del Pd”
Così, sostiene sempre Giavazzi, le imprese al centro dello scandalo Mose ora fanno di tutto per impedire che diventi sindaco Felice Casson, da sempre in prima linea contro la “malapolitica”, e per spianare invece la strada a qualche candidato “di paglia” che non si opponga al loro nuovo grande affare: un gigantesco porto off-shore da realizzare in mezzo all’Adriatico, costo previsto più di 2 miliardi.
Vedremo come va a finire questa inquietante vicenda veneziana. Ma resta il fatto generale, lo scivolamento sempre più evidente del Pd verso quella terribile definizione – “macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero” – coniata oltre 30 anni fa da Enrico Berlinguer per i partiti della Prima repubblica (tutti tranne il suo, ma questa è un’altra storia… ).
Adesso, a noi pare lapalissiano, il Pd somiglia sempre di più all’istantanea, impietosa e fedelissima, con cui Berlinguer immortalò a suo tempo la degenerazione affaristica della politica italiana che nel giro di qualche anno avrebbe portato al terremoto di Tangentopoli e di Mani pulite. Le assomiglia al punto da avere trasfigurato lo stesso strumento delle primarie – a Napoli, in Liguria, ora magari a Venezia e in Campania – da possibile bombola ad ossigeno per una democrazia dei partiti sfibrata e quanto mai impopolare nel suo contrario, nell’espediente gattopardesco per dare una parvenza di legittimità a pratiche e scelte deteriori. Così, è del tutto inutile che i dirigenti democratici ostentino indignazione quando vengono descritti come una delle peggiori rappresentazioni della “casta”: invece di indignarsi, si guardino seriamente e accuratamente allo specchio, oppure rischiano di finire come Dorian Gray che si ribella al proprio ritratto degenerato e ne viene infine ammazzato.
ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE