pubblicato su huffingtonpost.it
Come ha detto con parole oneste e chiare Mario Monti, sull’Imu ha vinto il Pdl. In Italia quest’anno non si pagherà un solo euro d’imposta sulla prima casa. Non pagherà nessuno: chi abita in 50 metri quadrati e vive con 2000 euro al mese, chi possiede prime case da 200 o 300 metri e guadagna centinaia di migliaia di euro all’anno. Una decisione indecente? Se ne può discutere, ma certamente una decisione di destra che fa dell’Italia l’unico Paese occidentale dove il patrimonio-casa non è tassato nemmeno per i più ricchi. La conclusione, provvisoria ma significativa, della telenovela Imu rafforza l’impressione che se le intese a sostegno del governo Letta sono larghe, larghissime, invece l’agire concreto dell’esecutivo curva sempre più strettamente a destra, con il Pd che pur di tenere legato il Pdl si spinge a condividere o a subire scelte che solo poche settimane fa sbeffeggiava come miserabile demagogia berlusconiana. Ora tutto è cambiato, davvero tutto. Napolitano e Letta (Enrico) sono riusciti in ciò che fino a sei mesi fa era impensabile: unire in una stessa maggioranza il giaguaro e suoi sedicenti smacchiatori. Una vera “missione impossibile”, un sortilegio dal segno controverso – per alcuni miracoloso, per altri malefico – e che certamente ha prodotto un vistoso effetto collaterale: esaltare la vitalità del Pdl, tornato mattatore della scena politica come non era da qualche anno, e annichilire quella – residua – del Partito democratico. Così, mentre i “berluscones” parlano continuamente di Imu, di Iva, di decadenza da senatore del loro leader condannato per frode fiscale – tutte cose semplici, immediate, facilmente comprensibili -, il Pd su questo tace o balbetta e in generale si occupa di altro, soprattutto del suo congresso, sommergendo i militanti più affezionati di documenti in cui capicorrente veri o presunti e candidati segretari in pectore presentano minuziosamente la propria idea di partito democratico.
Leggere queste pagine è faticoso ma istruttivo. Aiuta a capire perché Berlusconi da vent’anni è il padrone d’Italia.
Oggi come sempre, in Italia come dappertutto, le persone discutono e si dividono nelle diverse arene civili – casa, amici, ufficio, fabbrica, scuola, bar… – sugli interessi, ciò che conviene a loro stessi, alle loro famiglie, alle loro comunità locali e professionali, e sui princìpi: quale idea di progresso, di benessere, di equità , di futuro. Su queste basi la maggioranza dei cittadini orienta anche le proprie scelte elettorali: la maggioranza, cioè tutti coloro che non votano per “appartenenza”, per abitudine personale o familiare, per relazioni di amicizia o di clientela con questo o quel politico. Bene, anzi male, perché nei documenti sfornati da Barca, Fassina, Bettini, Boccia – come, si può prevedere, in quelli in arrivo di Cuperlo e Pittella – di casi concreti e contemporanei che riguardino gli interessi o i princìpi, cioè di quei temi pubblici che occupano generalmente l’attenzione e i discorsi degli italiani, quasi non si trova traccia, mentre il maggiore spazio è per questioni che alle orecchie della quasi totalità dei nostri concittadini suonano pressoché esoteriche: la forma partito, l’album di famiglia più consono a un partito riformista, genericissimi appelli indifferentemente all’uguaglianza e al merito…
Tre esempi di questa ingombrantissima assenza? Cercate nei testi di cui sopra le parole Tav, Ilva, patrimoniale: ricorrenze zero. Eppure si tratta di parole importanti, che evocano questioni attualissime, molto dibattute tra gli italiani, decisive sul piano degli interessi come su quello dei princìpi. Lo scontro ormai pluridecennale sul Tav Torino-Lione simboleggia modi radicalmente diversi d’intendere il rapporto tra democrazia e decisione; sull’Ilva di Taranto si confrontano opposti punti di vista quanto alla legittimità di anteporre le ragioni della salute a quelle dell’economia e del lavoro; il sì o il no a forme progressive di tassazione dei patrimoni rimanda a due idee tendenzialmente inconciliabili del patto sociale tra i cittadini e lo Stato.
Forse il punto è proprio qui: la nomenclatura Pd si tiene a distanza da temi come il Tav, l’Ilva, la patrimoniale perché se ne parlasse dovrebbe scegliere, schierarsi da una parte o dall’altra, risolvere le mille incertezze della sua mai chiarita identità . Molto meno rischioso pronunciarsi su alternative – meglio un Pd “liquido” o “solido”? più importante l’eredità di Moro e Berlinguer o il riferimento ai partiti socialisti europei? – che non dividono per la banale ragione che interessano solo a chi ne scrive e a pochissimi adepti.
Così per quieto vivere, per non scontentare nessuna delle sue supposte anime, il Pd rischia di riuscire in un’altra, ancora più azzardata, missione impossibile: anagraficamente è un partito giovanissimo, nato per rispondere alle sfide per buona parte inedite portate dal nuovo secolo; ma vedendolo all’opera fa l’effetto di un ultracentenario, nemmeno troppo arzillo. Un guaio vero e grande, che va molto al di là del destino personale e collettivo dei gruppi dirigenti democratici. Una parabola di rapidissimo declino che rischia di allontanare ancora di più l’Italia dalla possibilità di quel cambiamento radicale e coraggioso indispensabile a curarne i mali e liberarne le energie.
ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE