Pubblicato su formiche.net
A Doha in occasione della Conferenza Onu su Cambiamenti Climatici – COP18 – in corso di svolgimento in questi giorni, ho avuto occasione di incontrare, il Direttore del Centro Studi di Al Jazeera Salah Eddin Elzein, accompagnato da alcuni dei suoi ricercatori. Intanto una conferma evidente della “politicità ” dell’operazione Al Jazeera : molto più di una televisione ovviamente. Il suo centro studi è uno dei più autorevoli think tank della regione e d’altronde è il Qatar che si sta facendo sempre più centrale, grazie anche alla sua straordinaria forza economica (100mila dollari il reddito medio del quatarino) e rappresenta se stesso sempre di più come pivot dell’intero mondo arabo . Ciò che ho ricavato dalla nostra conversazione sono alcuni punti fermi, il primo dei quali è senz’altro che la rivendicazione orgogliosa del ruolo dei media (leggi la sua Al Jazeera) come “levatrice” delle rivolte della primavera araba, ” Non negli ultimi due anni, ma da tempo diamo voce alle opposizioni, alle denunce della corruzione, alla lotta dei popoli contro le umiliazioni in cui vivono da oltre un secolo a causa prima delle colonizzazioni , poi delle dittature”, non sembra al mio interlocutore in contraddizione con lo stato della democrazia in Quatar. Stato proprietario del network televisivo, nel quale solo pochi giorni fa si è tenuta la prima manifestazione pubblica, iper controllata peraltro, inscenata da un gruppo di ambientalisti che hanno avuto il merito di richiamare anche il tema dei diritti dei lavoratori (qui il 94% della forza lavoro è costituito da immigrati). àˆ il concetto stesso di democrazia che costituisce una diversità difficilmente colmabile tra noi , ma ciò non toglie che anche dalla sede di Al Jazeera si guardi con una certa preoccupazione al destino della “primavera”. Salah ritiene che indietro non si torna, ma ammette che tutto si gioca in Egitto e che se lì si riesce a trovare una strada, che può diventare modello per gli altri paesi, la rivoluzione in atto si completerebbe, altrimenti resta monca. Scontate sia la soddisfazione per il recente successo della Palestina all’Onu sia la lettura dell’attacco di Israele a Gaza, che qui si pensa dettato dalle elezioni imminenti a Tel Aviv e dalla voglia degli israeliani di testare la reazione di Morsi. Meno aspettato per me il giudizio liquidatorio e un po’ sprezzante espresso su Ahmadinejad e la certezza che, anche se prevedono una conferma alle prossime elezioni iraniane del successo dell’ala più conservatrice, quella legata alla guida spirituale, mai più si avrà al potere un personaggio come quello che anche gli stessi leader iraniani avrebbero capito essere causa più di danni che altro. Infine, ovviamente, ci siamo soffermati sul tema al centro delle trattative ONU e come può incidere la questione cambiamenti climatici nello scacchiere geopolitico internazionale. E i ricercatori arabi si sono mostrati consapevoli che la discussione sul climate change si trascina anche quella sulla riduzione delle fonti fossili e sono coscienti che devono diversificare gli investimenti. Il campanello d’allarme degli Usa ormai quasi indipendenti sul fronte energetico (grazie soprattutto al gas da fracking), è suonato forte anche qui. Non a caso proprio il Quatar è venuto a prendersi qualche gioiello europeo, dal calcio alla moda, alla finanza. Ma contano sul fatto che la richiesta di petrolio continuerà ad essere forte soprattutto dall’est dicono loro (Cina e India) e ancora per una quantità di tempo sufficiente affinché loro si possano attrezzare al cambiamento. Forse un motivo in più per noi – nella inevitabile competizione globale – per accelerare invece nella direzione di una società low carbon spingendo su innovazione tecnologica di processo e prodotto. Unica strada di salvezza per la vecchia Europa