Chimica verde e bioshopper

Pubblicato su QualEnergia

Negli anni sessanta il boom economico italiano si fondò innanzitutto su automobile e chimica. La potenza anche simbolica della produzione automobilistica è cosa nota e approfondita, così come la crisi attuale. Ma non inferiore fu allora l’impatto della chimica. La capacità  innovativa della ricerca sul prodotto, che ebbe nel premio Nobel Giulio Natta e nel suo moplen i suoi principali protagonisti, permise al nostro Paese di conquistare una leadership internazionale in quel settore industriale che occupava decine di migliaia di lavoratori, e rappresentò una rivoluzione nei comportamenti, nelle abitudini di milioni di persone. Non da oggi ma da qualche lustro anche quella chimica è in grave crisi. Gli occupati scemano a vista d’occhio in tutti i poli industriali che negli anni sessanta, certo pagando un prezzo molto rilevante sul fronte ambientale e della salute soprattutto dei lavoratori, avevano rappresentato uno straordinario concentrato di produzione, ricerca, aumento di ricchezza, nascita di una consapevolezza e cultura della classe operaia. Le produzioni si sono spostate e continuano a farlo in paesi dove la mano d’opera costa meno e dove la materia prima di quella chimica, il petrolio, è facilmente accessibile.

Per anni si è assistito a questa crisi come se fosse un fenomeno irreversibile che lasciava per strada migliaia di lavoratori e andava mettendo in crisi intere comunità : da Marghera alla Sardegna, da Terni a Priolo solo per citare alcune delle aree più interessate. E invece, ancora una volta grazie a una grande capacità  di innovazione, il nostro Paese ha una straordinaria chance di riconquistare la leadership in una chimica nuova , quella chimica che non usa più il petrolio ma piuttosto materie prime rinnovabili dall’agricoltura: la chimica verde.

E così come negli anni sessanta di Giulio Natta, un’innovazione che nasce dalla ricerca scientifica può contemporaneamente salvare e rilanciare poli industriali e occupazione e rappresentare una straordinaria rivoluzione negli stili di vita dei cittadini. Sta già  avvenendo. Infatti con la legge finanziaria del 2007 è stato introdotto il divieto di produzione e commercializzazione di sacchetti di plastica non biodegradabili nel nostro Paese, il primo in Europa che sceglie una misura così drastica. Una norma i cui risultati sono stati così positivi che la Commissione Europea, anche sulla base di un sondaggio tra cittadini e stakeholders, sta prendendo in esame di estendere la norma in qualche forma all’intero territorio europeo. Il divieto è entrato in vigore nel gennaio del 2011 e da una parte c’è stato un  vasto  gradimento  dei cittadini, l’83 % dei quali, come ha confermato un sondaggio  Ispo del luglio scorso, è contrario al ritorno dei sacchetti di  plastica  tradizionali, e dall’altra si è appunto innescato un radicale e virtuoso cambiamento negli stili di vita tanto che il 75% dei cittadini dichiara di essersi già  riconvertito all’uso  della  sporta riutilizzabile. L’Unicoop di Firenze, ad esempio, tra i primi ipermercati ad adeguarsi alla legge, che nel 2008 aveva venduto 450  milioni  di shoppers , nel 2011 ne ha venduto solo 220 milioni tutti  biodegradabili  e  i suoi clienti hanno acquistato anche circa 6 milioni di sporte riutilizzabili.

Un successo straordinario che ha permesso all’industria leader del settore, l’italiana Novamont, di programmare importanti investimenti per proseguire nella ricerca e per aumentare in maniera spettacolare la produzione. Da qui il salvataggio in corso del polo chimico di Porto Torres che l’Eni altrimenti avrebbe probabilmente chiuso data l’ingente perdita economico che andava accumulando anno dopo anno: lì è nata tra la piccola, ma dinamica e “rivoluzionaria” Novamont, e la nostra più grande multinazionale, l’Eni, una joint venture – Matrica – che rappresenta una concreta speranza per quell’area del nostro Paese ma anche per la nuova chimica, parte importante della green economy. E un analogo rilancio può avvenire a Terni dove per rispondere alla fuga di una multinazionale della vecchia chimica, come la Basell, si sta provando a costruire un polo industriale tutto nuovo grazie proprio a chimica verde e fonti rinnovabili. Insomma una speranza concreta di rilancio industriale nel quale, almeno per una volta, il nostro Paese gioca un ruolo fondamentale a livello internazionale. Infatti la “rivoluzione” della chimica verde è rivoluzione globale in cui sono impegnate molti colossi del settore, da Basf a Sphere e a Natureworks, ma nella quale i brevetti italiani sono tra i più avanzati.

Non capita spesso che il legislatore sappia cogliere per tempo le opportunità  che l’innovazione offre: questo un caso positivo di cui chi per primo aveva visto le potenzialità , gli ambientalisti e Legambiente in particolare protagonista di una battaglia per il divieto degli shopper di plastica, ma soprattutto ovviamente coloro che a partire dall’esperienza della Montedison, di quella figura controversa e geniale che fu Gardini, sono i diretti discendenti e straordinari sviluppatori, devono essere orgogliosi.

Tutto bene quindi? Non completamente. Anche in questo caso infatti qualcuno ha provato e sta ancora tentando di vanificare gli effetti positivi del cambiamento trovando un “inganno” assai subdolo. Approvata la legge , a fine 2006, coloro che non volevano che cambiasse nulla, le lobby della chimica tradizionale , hanno puntato tutto sulle proroghe. Poi persa questa battaglia di retroguardia qualcuno si è “inventato” degli additivi chimici da aggiungere alla plastica da petrolio per produrre sacchetti “biodegradabili” ma non compostabili. Un inganno che ha determinato qualche confusione nei consumatori che si sono trovati in mano sacchetti che riportavano la scritta “biodegradabile” ma che non erano smaltibili insieme ai rifiuti organici e soprattutto un tentativo che ha il dichiarato obiettivo di continuare ad utilizzare il petrolio come materia prima e impedire quindi la riconversione del settore chimico. Un obiettivo miope che per salvare qualche decina di piccole imprese che producono sacchetti di plastica, e per le quali sarebbe facile pensare a un programma di riconversione per renderle in grado di trattare il nuovo materiale, rischia di mettere in pericolo la nuova frontiera della chimica verde e proseguire nel danneggiare l’ambiente. Abbandonare completamente le buste della spesa di plastica significa infatti ridurre l’emissione di 400mila tonnellate di anidride carbonica (CO2) grazie a un risparmio nei consumi di petrolio stimato pari a 200mila tonnellate l’anno. Fortunatamente il Ministro dell’ambiente Corrado Clini, che sin dal suo insediamento ha lucidamente perseguito il sostegno della chimica verde come unica speranza di salvezza del settore, ha emanato un nuovo decreto che pone fine a questa “truffa”: si stabilisce una volta per tutte che gli shopper consentiti sono solo quelli realizzati secondo la norma UNI EN 13432 che fissa i criteri di biodegradabilità  e compostabilità , e quelli abbastanza spessi da potere essere riutilizzabili (nei quali andrà  impiegata una percentuale significativa di plastica riciclata). Nel corso dell’approvazione in Parlamento, un colpo di coda dei conservatori, ha spostato la possibilità  di comminare sanzioni pecuniarie a chi non rispetta la legge al dicembre 2013. ma la strada è ormai finalmente e definitivamente segnata: l’Italia si conferma all’avanguardia in Europa e la green economy ha la concreta possibilità  di giocare il ruolo che le compete nel rilancio economico e occupazionale del nostro sistema industriale almeno nel campo della chimica.

Sen. Francesco Ferrante
Vicepresidente Kyoto Club