“Green economy e questione sociale, ripartiamo dal lavoro”

Introduzione al quinto capitolo di “La Tempesta Migratoria” di Stefano Bettera e Francesca Terzani, edito da Corbieri Sapori.

Ambiente e immigrazione. Per chi si è sforzato da sempre di considerare l’impegno ambientalista come una chiave per leggere la realtà  e provare a cambiarla nel suo complesso – “Il mondo è tutto attaccato” è uno de fortunati slogan di matrice “legambientina” – è evidente il legame fortissimo fra difesa dell’ambiente e capacità  di relazionarsi a un fenomeno che sarà  sempre più imponente. Sia per capirne meglio le origini, le motivazioni, sia per costruire una società , le città  soprattutto, in grado di “accogliere” e “vivere insieme” ai nuovi cittadini.

Se qualcuno, un po’ di anni fa, ci avesse detto che le isole possono andare a fondo lo avremmo preso sicuramente per un amante del calembour. Invece ora, lo sappiamo bene, è una tragica realtà  che tocca non solo isole e atolli per noi in certo senso ‘familiari’ come le Maldive, meta di vacanze esotiche, ma anche le misconosciute isole Carteret.

Le isole Carteret, al largo delle coste di Papua Nuova Guinea, sono state immortalate nell’ottimo documentario della regista statunitense Jennifer Redfearn, che non ha indugiato su tramonti e acqua cristallina ma ha portato all’attenzione del mondo quello che potrebbe diventare in un futuro prossimo il paradigma della nostra terra vittima del riscaldamento globale.

La popolazione delle Carteret vede scomparire la loro terra  perché,  come ha detto Thomas Friedman, noto giornalista vincitore di un Premio Pulitzer :”in un mondo che paga sempre più gli effetti del riscaldamento globale, indovinate chi ne pagherà  le conseguenze? Coloro che hanno minore responsabilità  nell’aver causato il fenomeno.”

Il cambiamento climatico  concorre a innalzare il livello delle maree, a far nascere uragani sempre più violenti, a intensificare le piogge a far progredire la desertificazione e determina effetti stravolgenti in termini e economici e sociali su milioni di individui.

Un fenomeno drammatico che sta colpendo alcune zone del pianeta con sistemica violenza, come ad esempio le coste del Bangladesh, Myanmar e India, ormai un vero e proprio flashpoint di cicloni improvvisi e inondazioni da parte delle maree, a causa delle quali le persone del luogo, che hanno perso tutto, si spostano in massa verso i centri abitati più vicini, e come ovviamente l’Africa sub-sahariana dove la desertificazione avanza.

In ogni caso dobbiamo prendere atto che c’è un nuovo fenomeno nell’arena globale: i rifugiati ambientali. Non tutti hanno abbandonato i loro paesi ma tutti hanno dovuto lasciare i propri luoghi di origine, con poca speranza di farvi ritorno.

A livello globale le Nazioni Unite prevedono che per il 2020 vi saranno nel mondo ben  50 milioni di rifugiati climatici. Finora la questione dei rifugiati ambientali è stata considerata come una problematica marginale, fuori dal normale ordine delle cose. Ma noi non possiamo continuare a ignorare i rifugiati ambientali semplicemente perché non c’è una convenzione internazionale che ne classifica lo status.

Per questo motivo è assolutamente condivisibile l’auspicio fatto ad esempio dalla Environmental Justice Foundation (EJF) di riconoscere ai rifugiati climatici lo status di protezione internazionale sotto l’egida dell’Onu.

Una massa di uomini e donne che si uniscono a tanti altri, spinti da motivazioni diverse che arrivano quotidianamente nei nostri ricchi Paesi. Illusorio, oltre che razzista e xenofobo, tentare di respingerli tutti a mare o lasciarli in condizioni inenarrabili come è stato fatto ad esempio a Lampedusa in occasione delle crisi in Tunisia e Libia. Ma d’altra parte sarebbe assai sciocco non vedere i problemi che nell’attuale tessuto urbano di tutte le nostre città  provoca l’arrivo di persone con stili di vita, abitudini molto diverse e che ovviamente quasi sempre sono in condizioni economiche difficilissime. Nello sforzo per costruire condizioni di vita soddisfacenti per questi nostri nuovi concittadini, ma anche per garantire che l’integrazione indispensabile sia appunto tale e non un peso per chi già  abita le nostre città  e quei quartieri, è fondamentale intervenire proprio sulla struttura urbanistica, sulle questioni squisitamente ambientali. Solo così si può costruire una “città  a misura di persona”, di tutte le persone.

Francesco Ferrante