MoDem, né liberaldemocratici, né socialisti

Sostiene il direttore di Europa che il merito più grande dell’iniziativa di Modem al Lingotto è avere reso esplicita, quasi palpabile, la scelta cui è chiamato il Pd: diventare un partito neo-socialista oppure darsi un profilo liberaldemocratico.

Sintetizzata così, l’alternativa non ci appassiona e un po’ ci inquieta.

A parte il fatto che se fosse questo l’attuale dilemma democratico ci troveremmo malmessi, visto che la quasi totalità  del gruppo dirigente del Pd (compresi noi che scriviamo e compreso il direttore di Europa) non proviene né dall’una né dall’altra tradizione politica, il punto è che tale lettura tralascia del tutto un dato di fatto: sia la cultura politica socialista sia quella liberale fanno fatica, da sole, a capire e dunque a proporsi di cambiare la realtà  del nuovo secolo. Entrambe, per esempio, guardano al progresso e al benessere con occhi quasi solo quantitativi, non vedono che oggi – persino in questi tempi di acuta crisi economica e di riemergenti bisogni materiali – le persone e le comunità  intendono per progresso e per benessere dimensioni più larghe. Entrambe, così, faticano a vedere nelll’ambiente un grande problema del presente, un bisogno e una preoccupazione centrali nella sensibilità  soprattutto dei più giovani, un elemento fondante di un riformismo capace di convincere, di un’economia capace di crescere in modo duraturo e sostenibile, di una società  capace di restare coesa e di prendersi cura dei beni comuni. Ancora: sia il punto di vista socialdemocratico sia quello liberale hanno tardato a riconoscere i rischi, accanto alle opportunità , insiti nei processi  di globalizzazione: i rischi di un’economia consegnata alle logiche della finanza, i rischi e la sostanziale infondatezza dell’idea che per competere nel mondo attuale ci si debba omologare tutti ad uno stesso modello produttivo e anche socio-economico. Alla fine, socialisti e liberali si assomigliano più di quanto qualcuno immagini, di sicuro si assomigliano nella difficoltà  di voltare pagina rispetto al loro Novecento. Tant’è che mentre i partiti socialisti sono in crisi dappertutto, i partiti liberali per sopravvivere hanno dovuto cambiare radicalmente pelle, o imboccando la via della destra neo-nazionalista o percorrendo territori inediti rispetto al liberalismo, come la vocazione ambientalista nel caso dei liberali inglesi o dei democratici americani.

Naturalmente molti dei valori socialisti e liberali restano un fondamento irrinunciabile per mettere in campo una proposta riformista coerente e convincente. Gli uni sono indispensabili come richiamo alla giustizia sociale, alla difesa dei più deboli; gli altri per dare adeguata attenzione ai temi e ai princìpi della libertà  individuale, del merito come alimento di una società  che dia a tutti pari opportunità , dei diritti civili. Ma vanno messi al servizio di una prospettiva molto più ampia e moderna: la prospettiva, per citare un riferimento delle ultime ore, che ispira l’intera “costruzione” del discorso di Obama sullo stato dell’Unione, dove per parlare di economia e di lavoro si parla soprattutto di ambiente.

Questa deve essere anche la missione di Modem. Missione difficile, ma obbligata per scongiurare la fine prematura del progetto generoso e ambizioso da cui è nato il Pd. L’obiettivo è ritrovare la fiducia del “popolo democratico”, non solo di quel 33% di elettori che ci ha votato due anni e mezzo fa ma del 42% che non esclude di votarci. Questo nostro elettorato potenziale è unito su molto: chiede politiche di cambiamento radicale che prendano di petto i tanti immobilismi italiani; rifiuta una declinazione del riformismo come proposta moderata che replichi solo un po’ addolcite e diluite le stesse ricette della destra. Per esempio, trova scandaloso che le indennità  degli operai in cassa integrazione siano tassate di più dei “capital gain” dei top manager d’impresa, e mentre considera urgente riformare le regole del mercato del lavoro e il modello di welfare, aprendo le une e l’altro alle esigenze di categorie oggi maltrattate – i giovani, i lavoratori precari -, però si arrabbia parecchio a vedere Marchionne elevato a icona riformista.

Questo popolo, il nostro popolo, vorrebbe no chiari – come quello al nucleare – e sì altettanto netti, come i sì a vere liberalizzazioni che liberino il Paese dalla gabbia sociale in cui lo imprigionano caste e corporazioni. Vorrebbe dalla politica del Pd la capacità  di offrire al Paese una speranza concreta di sviluppo e di progresso che valorizzi il meglio delle nostre qualità  nazionali, a cominciare – citiamo le parole usate recentemente da Ermete Realacci su queste pagine – dall’intreccio tipicamente italiano tra “coesione sociale e diritti, comunità , territori e sussidiarietà “. E vorrebbe scelte di grande radicalità  come l’idea avanzata da Veltroni al Lingotto di una patrimoniale sulle grandi ricchezze per ridurre il debito pubblico: idea difficile da etichettare secondo le tradizionali categorie progressiste, ma idea, se misurata sui problemi italiani, ad altissimo tasso di riformismo.

àˆ un popolo quello democratico che in massima parte non si definirebbe né socialista né liberale, anche se è molto affezionato sia alla solidarietà  che alla libertà . Un popolo che non ne può più di Berlusconi ma non s’immagina e non si augura che per liberarsene si debba tornare a vent’anni fa, a quel Novecento da cui tutti dicono sia l’ora per l’Italia di tirarsi fuori.

 

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante